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29 agosto 2013

Quando a Milano arriva l'autunno.....

 Quando a Milano arriva l’autunno, te ne accorgi dal rumore delle foglie prima che cadano. Il grigio si impossessa di ogni cosa e le cicale non cantano più. L’aria diventa sbiadita e il sole sembra che si spenga assorbito dai rumori assordanti di una città che non può stare ferma. L’aria umida riempie gli occhi e le case, l’odore del tempo che passa, filtra leggero e si impossessa dei cuori. A Milano tutti ricominciano a correre, nessuno si chiede come sta, ma si corre tutti insieme….dove non si sa

  

Terzo intermezzo 

La polvere il sangue le mosche e l'odore
per strada fra i campi la gente che muore
e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos'è
e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi il perché.

L'autunno negli occhi l'estate nel cuore
la voglia di dare l'istinto di avere
e tu, tu lo chiami amore e non sai che cos'è
e tu, tu lo chiami amore e non ti spieghi il perché. 
  
 Fabrizio De Andrè

21 agosto 2013

La Repubblica delle banane....



  
Letta, oggi da Vienna:"non siamo la Repubblica delle banane""
Ne siamo proprio sicuri?!

 

20 agosto 2013

dal diario di Maria....




dal diario di Maria, subito dopo aver abbandonato la lettura di quel noioso libro:

Ho incontrato un uomo, e mi sono innamorata di lui. Ho lasciato che mi innamorassi per una semplice ragione: non mi aspetto nulla. So che fra tre mesi sarò lontana da questo posto, e lui sarà un ricordo, ma io non riuscivo più a sopportare di vivere senza amore. Ero arrivata al limite.
Sto scrivendo una storia per Ralf Hart - è questo il suo nome. Non sono sicura che tornerà nel locale dove lavoro, ma per la prima volta nella mia vita questo mi lascia indifferente. Mi basta amarlo, stare con lui nel pensiero e colorare questa bella città coi suoi passi, le sue parole, il suo affetto. Quando lascerò questo paese, lui sarà un volto, un nome, il ricordo di un caminetto. Tutto il resto che ho vissuto qui, tutti i momenti difficili che mi sono lasciata alle spalle, scompariranno al cospetto di questo ricordo.
Per Ralf, vorrei poter fare ciò che lui ha fatto per me. Ho riflettuto a lungo e ho scoperto che non sono entrata casualmente in quel caffè. Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prim'ancora che i corpi si vedano. Generalmente, essi avvengono quando arriviamo a un limite, quando abbiamo bisogno di morire e rinascere emotivamente.
Gli incontri ci aspettano, ma la maggior parte delle volte evitiamo che si verifichino. Se siamo disperati, invece, se non abbiamo più nulla da perdere oppure siamo entusiasti della vita, allora l'ignoto si manifesta e il nostro universo cambia rotta.
Tutti sanno amare, perchè nascono con questo dono. Alcuni praticano l'amore naturalmente, ma la maggioranza deve apprendere di nuovo, ricordare come si ama; e tutti - senza alcuna eccezione - hanno bisogno di bruciare nel fuoco delle proprie emozioni passate, di rivivere gioie e dolori, cadute e riprese, fino al momento in cui sono in grado di intravedere il filo conduttore che esiste dietro ogni nuovo incontro. Sì perchè c'è un filo.
Allora i corpi imparano a parlare il linguaggio dell'anima, e questo si chiama "sesso" Ed è ciò che io posso dare all'uomo che mi ha restituito l'anima, benchè lui ignori totalmente la sua importanza nella mia vita. E' quello che mi ha chiesto, ed è ciò che avrà. Voglio che sia molto felice.

 



19 agosto 2013

Gli occhi di una donna......






”…ma l’amore, che gli occhi di una donna
per primi c’insegnarono a conoscere,
non vive solitario, straniato,
murato nella cerchia del cervello;
ma, eccitando all’azione tutti i sensi,
s’espande, rapido come il pensiero,
per ogni nostra facoltà vitale,
dando a ciascuna una doppia energia,
fuori dalle funzioni della prima.
Aggiunge all’occhio una seconda vista:
due occhi innamorati son capaci
perfino d’abbagliar quelli d’un’aquila;
così come un orecchio innamorato
è capace di percepire un suono
talmente fioco da poter sfuggire
al sospettoso orecchio d’un ladrone;
la percezione d’un innamorato
è più sensibile e più delicata
di quella delle antenne della chiocciola;
è volgare al palato dell’amore,
anche il gusto del raffinato Bacco.
E quanto ad ardimento, non è Amore
un Ercole ancor sempre inerpicantesi
sugli alberi dell’orto delle Esperidi?
Come sfinge sagace; dolce e armonico
come la lira
del fulgente Apollo,
che ha per corde i capelli di quel dio.
E quando parla Amor, s’incanta il cielo
all’armonia del coro degli dèi.
Poeta non ardisca toccar penna
finché l’inchiostro suo non sia temprato
nei sospiri d’amore: solo allora
i suoi versi raggiungono il potere
d’incantare gli orecchi più selvaggi,
e di piantar nel cuore dei tiranni
una mite umiltà. Questa dottrina
io derivo dagli occhi delle donne
che sprizzano scintille senza posa
sul fuoco di Prometeo; e son loro
i testi, le dottrine, le accademie
che svelano, contengono, alimentano
tutte le vere realtà del mondo,
senza le quali mai nessun mortale
potrebbe eccellere in alcuna cosa.
Perciò fu il vostro un tratto di pazzia
a rinnegar le donne; ma più pazzi
sareste ad intestarvi ad osservare
quello per cui faceste giuramento.
Per amor di saggezza - una parola,
questa, che tutti gli uomini hanno a cuore -
o per amor degli uomini,
di quelle donne autori; o delle donne
per le quali noi uomini siam uomini,
lasciamo perdere una buona volta
i giuramenti, se teniamo a cuore
di ritrovar noi stessi; ché altrimenti
noi rischiamo di perdere noi stessi,
per mantenere i nostri giuramenti.
Esser così spergiuri è religione:
perché la carità conchiude in sé
tutta la legge, e quale mai potere
può separar da carità l’amore?....”

W. Shakespeare

16 agosto 2013

I libri attraversano l'oscurità...


 
Viviamo in tempi di semplificazione massificante, di conseguenza l'inquietudine è il più reietto dei sentimenti. Puoi essere infelice, certo, anzi lo devi essere, perchè tutti gli oggetti che ti suggeriscono di comprare non sono altro che succedanei della felicità, ma l'inquietudine non ti è concessa perchè è uno stato che produce domande e le domande richiedono risposte e, per avere risposte, bisogna mettersi in viaggio come Abramo e, alla fine del viaggio, magari scoprire che non sono le cose a darti pace, ma la profondità dei sentimenti che sgorgano dal tuo cuore.

Ecco credo che i libri esistano proprio per farci compagnia in questo viaggio, per darci coforto nell'asperità del percorso. Esistono e rimangono con noi perchè l'uomo, prima di ogni altra cosa, è memoria e la sua vita è la vita delle generazioni che lo hanno preceduto. Se non fossi convinta di questo, non sarei stata neppure un pomeriggio seduta alla mia scivania..."

S. Tamaro

Con le braci dentro...


Io sono l'arco spezzato di un cerchio.
Sono la figura infranta di una statua.
E' l'opinione taciuta di qualcuno.
Io sono la forza che l'asprezza ha schiantato


Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare
un simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i pendii amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi che pensiamo la felicità come un'ascesa, ne avremmo l'emozione
Quasi sconcertante
Di quanto cosa ch'è felice, cade.

Kosovel

15 agosto 2013

Meraviglioso....

Dedicato a tutti quelli che....hanno ascoltato il proprio angelo...





E' vero credetemi è accaduto
di notte su di un ponte
guardando l'acqua scura
con la dannata voglia
di fare un tuffo giu'


D'un tratto
qualcuno alle mie spalle
forse un angelo
vestito da passante
mi portò via dicendomi così:
Meraviglioso, ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia meraviglioso,
meraviglioso perfino il tuo dolore
potrà guarire poi meraviglioso
ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto
ti hanno inventato il mare
tu dici non ho niente
ti sembra niente il sole
la vita, l'amore


Meraviglioso il bene di una donna
che ama solo te meraviglioso
la luce di un mattino
l'abbraccio di un amico
il viso di un bambino meraviglioso
meraviglioso
meraviglioso
meraviglioso

Meraviglioso
ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto
ti hanno inventato il mare
tu dici non ho niente
ti sembra niente il sole
la vita, l'amore
meraviglioso il bene di una donna
che ama solo te meraviglioso
la notte era finita
e ti sentivo ancora
sapore della vita meraviglioso
meraviglioso meraviglioso
meraviglioso meraviglioso

I love you





 Gli americani non hanno ‘sto impiccio. Loro si dicono subito: ti amo. I love you. Se lo dicono per salutarsi, per farsi le coccole, per dichiararsi amore eterno. Altrimenti usano il mi piaci. Che almeno è leale. I like you. E visto che sono entusiasti lo dicono parecchio. Lo sussurrano all’orecchio della fidanzata e lo esclamano davanti a una fetta di cotechino. Noi invece sempre lì col misurino. Mi vuoi bene ma come? Come alla tua cocorita? Ma quanto? Dammi un’idea di dosaggio. S.q.? Secondo quantità come nelle ricette dei manuali? Adesso i codardi azzardano anche il: “Mi fai stare bene”. Alla Biagio Antonacci. Sai che sforzo. Mi fai stare bene lo puoi dire a chiunque. Persino al tuo medico shiatsu quando ti schiaccia i piedi e ti mette a posto la cervicale. E poi il "mi fai stare bene" la dice lunga su quanto sia sempre tu il punto di partenza, l’alfa e l’omega del tuo moto sentimentale, il baricentro e la convergenza dei tuoi sensi.
 
Luciana Littizzetto, Col Cavolo

12 agosto 2013

la donna e le stelle....






 

Se esprimi un desiderio è perchè vedi cadere una stella, se vedi cadere una stella è perchè guardi il cielo, e se guardi il cielo, è perchè credi ancora in qualcosa.


 
è  notte fonda ad Alessandria. Tutti dormono, eccetto Ipazia. La casa è avvolta nella più completa oscurità e nel più profondo silenzio. Ipazia, tutta sola,  è seduta sulla torre e guarda il cielo. Osserva le stelle e i pianeti, guarda, calcola, pensa e ricorda. Quasi ogni sera, quando non c’era la luna, saliva quassù con Teone, suo padre. Sedevano l’uno accanto all’altra e guardavano insieme. Teone aveva preso quest’abitudine fin da quando  lei era piccina: la portava sulla torre   e le indicava col dito  le stelle più grandi, i pianeti e le costellazioni.  Avvicinava la testa alla sua, perché le due visioni collimassero, e poi le indicava gli oggetti astrali ad uno ad uno, nominandoli, e poi più tardi li indicava, in ordine sparso, per vedere se lei li ricordava.”

(cit. da C. Contini, Ipazia e la notte, Longanesi & C., Milano 1999, pag. 17)

Ipazia rappresentava il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio cominciò quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tentò di soffocare la ragione.

La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l'universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l'insegnamento calato dall'alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede.
Margherita Hack

Brevi Note storiche su Ipazia:

Ipazia nata ad Alessandria intorno alla metà del IV secolo, figlia di Teone, era una donna molto colta, che insegnava la filosofia di Platone ed Aristotele. Fu astronoma e matematica, autrice  di commentari alle opere di  Apollonio, Diofanto e Tolomeo. Se si prescinde da Teano, la moglie di Pitagora, di cui nulla ci è pervenuto, Ipazia è   la prima donna della storia della matematica, e,  allo stesso tempo, l’ultimo esponente della scuola alessandrina. 
A quel tempo l’Egitto faceva parte dell’Impero Romano,  del quale, dall’anno 313, con l’editto di Costantino,  il cristianesimo era diventato la religione ufficiale. Nel 392 l’imperatore Teodosio aveva bandito le religioni pagane, dando così in pratica  il via alla distruzione della cultura greca.  La stessa Ipazia cadde vittima dell’ondata di violento fanatismo religioso che ne conseguì: venne rapita e brutalmente assassinata. 

07 agosto 2013

I BOMBARDAMENTI A MILANO NELL'AGOSTO DEL1943




Come ho già scritto altre volte, Milano è la mia città, ci sono nata e l'ho vissuta sempre profondamente, anche attraverso i racconti dei miei nonni e di mia madre. Sono cresciuta con le storie sulla guerra, i bombardamenti, la fame, le fughe in cantina, il nonno partito per la Grecia e che ha visto morire tutti i compagni del suo paese, Bertonico, nella bassa padana. Ha portato a casa, lui che era scampato alle fucilate, un guscio di tartaruga. Quella tartaruga lo ha sfamato, mentre disperato si aggirava tra le pietre in terra greca cercando qualcosa da mangiare. Ora ce l'ho io, sulla mensola della libreria e quando la guardo mi ricordo di lui, della sofferenza di quel periodo, della forza che la gente di allora aveva, ed è quella forza che mi hanno trasmesso e mi porto dentro. Milano contiene quella forza, se l'è dimenticata ma prima o poi....la ritroverà...come tutti noi....

AGOSTO 1943


 In quattro giorni Milano fu colpita da 2.268 tonnellate di bombe sganciate da 843 aerei britannici. Il bilancio finale fu desolante: 239 industrie colpite, distrutte o gravemente danneggiate, 11.700 edifici civili e pubblici abbattuti, più di 15.000 quelli danneggiati, le centrali elettriche irreparabilmente bloccate, la rete di trasporti e di comunicazioni quasi totalmente inservibile, migliaia di morti.

Notte tra il 7 e l'8 agosto

Il 25 luglio Mussolini era stato arrestato dopo la storica seduta del Gran Consiglio del fascismo, e tradotto sul Gran Sasso. Per accelerare la resa dell'Italia, venne allora programmato un ciclo di bombardamenti ferocissimi su Milano, che, secondo le intenzioni, dovevano distruggere la città entro un mese.
Il primo di tali attacchi iniziò con l'allarme delle 0.52 dell'8 agosto, quando aerei nemici erano stati segnalati in passaggio sulla frontiera svizzera. Le bombe iniziarono a cadere alla 1.10. I Lancaster della RAF sganciano soprattutto bombe incendiarie: presto enormi cerchi di fuoco si propagarono a Porta Venezia, porta Garibaldi, in corso Sempione, Magenta e Ticinese. Il teatro Filodrammatici andò distrutto, così come gran parte del Corriere della Sera. Risultò inservibile l'ospedale Fatebenefratelli. Pesanti danni anche al museo di Storia naturale, al Castello, alla Villa Reale, al palazzo Sormani. In totale, si ebbero 600 edifici distrutti, sotto le cui macerie persero la vita 161 persone, più 281 feriti.
La contraerea riuscì a colpire due Lancaster (che precipitarono uno in via Gustavo Modena, l'altro, a pezzi, cadde sulla via Compagnoni e dintorni). L'oscuramento della città fu imposto dalle 21.30 alle 5.30. I mezzi ATM riuscirono a riprendere servizio solo in periferia, dato che la maggior parte delle vie più centrali risultava impraticabile al passaggio veicolare, ostruita da macerie e costellata di voragini..

Notte tra il 12 e il 13 agosto

Per questa missione il Bomber Command inglese mobilitò tutti gli apparecchi disponibili, e su Milano furono inviati addirittura 504 aerei: 321 Lancaster e 183 Halifax. Lo scopo di tale spiegamento di forze era quello di creare sulla città il cosiddetto vortice di fuoco (dai comandi inglesi tanto teorizzato quanto realizzato sulle città tedesche), per annientarla totalmente. Per questo, tra le 2.000 tonnellate di bombe trasportate quella notte, vi erano 380.000 spezzoni incendiari.
L'allarme fu dato alle 0.35, con cielo senza nubi. Neppure dieci minuti dopo iniziò lo sgancio delle bombe e degli spezzoni incendiari, il tutto per circa un'ora. La contraerea nulla poté fare. Il centro cittadino fu la zona più colpita, senza risparmiare però il quartiere Ticinese, Garibaldi, Sempione. Gli incendi divamparono ovunque, con effetti distruttivi su palazzo Marino, la Questura, il Commissariato Duomo, il Castello, la chiesa di San Fedele, Santa Maria delle Grazie (ma non il Cenacolo "ingessato" nei sacchi di sabbia); il Duomo riportò gravi danni, così come la Galleria (volta distrutta e facciata delle costruzioni "raschiate").
La potenza delle fiamme era alimentata dal vento che si era alzato a causa dell'incendio stesso, che attirava aria dalle campagne per autoalimentarsi (è l'effetto, enormemente ingrandito, che si verifica quando si apre lo sportello di una stufa: le fiamme subito riprendono vigore perché attirano nuovo ossigeno dall'esterno). La scena all'alba dovette apparire apocalittica: quasi metà città era in preda alle fiamme e l'aria totalmente irrespirabile, interi quartieri erano pericolanti. Furono comunque ripristinate alcune linee automobilistiche per favorire lo sfollamento degli ultimi cittadini rimasti, all'incirca 250.000 persone.

Notte tra il 14 e il 15 agosto

Questa volta 140 Lancaster scesero su Milano alle 0.32. In un'ora, sganciarono facilmente le loro bombe, guidati dagli incendi del precedente attacco che ancora ardevano non domanti. Furono nuovamente centrati il Castello, il Palazzo Reale, il teatro dal Verme e il teatro Verdi. Numerose industrie colpite pesantemente. I pochi cittadino presenti diedero soccorso ai vigili del fuoco e agli uomini UMPA per fermare la furia devastatrice delle fiamme, ma l'imprese fu rallentata dalla mancanza d'acqua, causata dalla distruzione delle tubature dell'acquedotto.

Notte tra il 15 e il 16 agosto

Il terzo attacco del ciclo programmato fece suonare l'allarme alle 0.31. Non tutti i 199 Lancaster decollati dall'Inghilterra questa volta raggiunsero Milano, in una notte per loro poco fortunata. Maggior sfortuna toccò comunque alla città: interi quartieri vennero bombardati. Segnaliamo solo: Archivio di Stato (enormi perdite cartacee), il Duomo, la Scala, che ebbe il tetto sfondato (e che sarà ricoperto con tettoie provvisorie fino all'inizio del lavori di restauro), la Rinascente (totalmente distrutta, poi demolita perché non recuperabile).
I quotidiani uscirono la sera seguente, in edizioni limitate, anche a causa della mancanza di carta per le rotative. La città era in preda agli incendi e coperta di macerie, e il Bomber Command decise di fermarsi, seppur insoddisfatto. Infatti la distruzione totale della città apparve impresa impossibile, per due ragioni.
Innanzitutto i materiali di costruzione degli edifici (pochissimo legno), e l'inversione termica che tanto afose rende le giornate di agosto: il caldo estremo anche notturno e l'umidità a livelli prossimi al 90% impedivano all'aria di circolare, ragione per la quale le fiamme non riuscivano mai a propagarsi con la facilità che si verificava sulle città tedesche. Inoltre, l'armistizio era ormai vicino: inutile insistere.

Le terribili incursioni del mese di agosto avevano colpito il 50% degli stabili, di cui il 15% gravemente danneggiato. I senza tetto furono almeno 250.000, e 300.000 gli sfollati. Per rimuovere le macerie si reclutarono con difficoltà 5.000 operai, oltre a 1.700 militari. La maggior parte degli sgomberi e delle messe in sicurezza fu affidata alla manovalanza ormai esperta della ditta Romanoni (che dall'inizio del conflitto aveva vinto l'appalto per tali incombenze).
Il servizio di trasporto pubblico fu quello che ne uscì più disastrato (acqua, luce e gas erano infatti ripresi entro le 48 ore). I tram e le filovie erano totalmente distrutti, così come le rimesse, devastate dagli incendi. Dalle vetture meno danneggiato si recuperano i pezzi per rendere efficienti pochi tram, in una sorta di cannibalismo meccanico. Inoltre, con la rete di alimentazione aerea danneggiata (i palazzi crollando avevano travolto in centinaia di punti i fili della corrente) anche i tram rimessi in servizio ebbero problemi di circolazione. Inizialmente vennero dunque impiegate le piccole locomotive a vapore dei gamba de legn (che vennero così tolte dai servizi extraurbani), le quali, con i rimorchi di fortuna, poterono garantire almeno qualche linea, soprattutto per collegare le stazioni ferroviarie.

Pietoso fu lo spettacolo dei monumenti milanesi: tra tutti, la mattinata del 16 agosto venne dedicata ad un sopralluogo della Scala, come detto centrata in pieno da una bomba di grosse dimensioni. I palchi apparvero gravemente danneggiati, solo il palcoscenico, ristrutturato notevolmente negli anni trenta, si era salvato grazie al sipario metallico che aveva impedito al fuoco di propagarsi. Per evitare che la pioggia e il gelo dell'inverno distruggessero del tutto quanto scampato, nel mese di settembre venne studiata e messa in opera una copertura provvisoria anulare, per proteggere i palchi e i fregi decorativi. La tettoia venne realizzata con materiale di fortuna, prevalentemente legno e cartone catramato. Solo a conflitto terminato sarebbe stato possibile portare a termine il restauro e il ripristino del teatro.


Santa Maria delle Grazie, eccettuato il Cenacolo, ne uscì parzialmente mutilata. La cupola bramantesca risultò alquanto danneggiata, così come il chiostro e la fontana centrale, colpita in pieno da una bomba. Anche il chiostro piccolo venne colpito, ma l'incendio propagatosi era stato coraggiosamente spento dall'opera degli stessi frati.

Infine, l'Ospedale Maggiore, la storica Ca Granda, fu centrata da sei o sette bombe di grosso calibro. Andò distrutto il cortile centrale, che perse i portici. Furono colpiti anche i chiostri laterali. Dovranno passare decenni prima di poter vedere restaurato l'antico complesso ospedaliero.

L'otto settembre regalò all'Italia l'armistizio; il 24 novembre Mussolini diede vita la Repubblica Sociale italiana.

Con il sopraggiungere dell'inverno si dovettero abbattere centinaia di alberi (tra quelli sopravvissuti agli incendi) per alimentare le stufe domestiche.

 I bombardamenti aerei su Milano durante la II guerra mondiale

di Mauro Colombo
 Santa Maria delle Grazie


06 agosto 2013

Il gran sole di Hiroshima



6 agosto 1945
All’orizzonte il cielo era infuocato. La sfera del sole che sorgeva faceva sembrare il mare un’enorme estensione di metallo fuso. Viste contro questo accecante mare di fiamme, le palme dell’isola di Tinian si stagliavano nere, come carbonizzate.

Anche gli uomini attorno al potente quadrimotore B-29, sembravano nere ombre dell’averno. L’aereo era come un mostro alato della preistoria, che portava nel ventre una bomba di specie mai vista. I suoi fasci di nervi erano i cavi di comando. I suoi motori gli davano la forza di migliaia di cavalli. Invece di un cervello, dozzine di strumenti pensavano per il mostro-macchina. Erano stati inventati da uomini e venivano maneggiati da uomini.

L’equipaggio dell’aereo era pronto. Gli aviatori stavano in riga davanti ai generali Spaatz e Groves, che li guardarono l’uno dopo l’altro e si rivolsero a ciascuno di essi, chiamandoli col grado ed il nome. Al colonnello Tibbets, che aveva il comando del B-29, il comandante in capo Spaatz prese la mano, e la tenne stretta.

“Colonnello, le ricordo ancora una volta che il suo incarico è come un’alta onorificenza. Il suo nome in futuro sarà scritto nei libri di storia del nostro Paese. Ho la facoltà di concederle, in occasione di questa azione d’importanza unica, di dare un nome all’aereo che guiderà. Pronunci questo nome a voce alta.”

Sorpreso dallo straordinario onore, Tibbets socchiuse gli occhi. Il suo sguardo scivolò oltre il viso del generale e si perse nelle profondità del cielo. Passarono alcuni secondi. Nel volto dell’aviatore i tratti, prima tesi e duri, si addolcirono. Un’espressione commossa, quasi infantile, era impressa ora sul suo viso. Lo sguardo dell’ufficiale di diresse nuovamente negli occhi del superiore.

“Signor generale: se mi è permesso, questo aereo porterà il nome di mia madre: Enola Gay”.

A voce più alta, il generale Spaatz ripeté il nome: “Enola Gay”. Poi ordinò al colonnello di seguirlo nella cabina di comando. E solo là Tibbets seppe il nome dell’obbiettivo della bomba. Il generale gli indicò un punto sulla carta di volo. Quel punto indicava una città: Hiroshima.

Il colonnello Tibbets, comandante del B-29 “Enola Gay”, guidò l’apparecchio a 8000 metri d’altezza, verso il centro della città di Hiroshima. Nello spazio riservato al carico, l’armiere, maggiore Farabee, mise in funzione il meccanismo di sganciamento della bomba.

Poi mirò il bersaglio.

La bomba cadde.

Con un miagolio infernale il mostro precipitò giù.

Gli uomini dell’equipaggio dell’ “Enola Gay” inforcarono subito, secondo gli ordini ricevuti, neri occhiali protettivi davanti ai vetri della maschera per l’ossigeno. Nessuno di loro sapeva che cosa sarebbe accaduto il minuto successivo. Essi eseguivano soltanto un ordine preciso.

Ed aspettarono, con le membra così irrigidite da parere insensibili. Tendevano l’orecchio, e credevano di sentire l’urlo della bomba che precipitava. Ma era soltanto il pulsare del loro stesso sangue. E tutti guardavano fissi nel vuoto, senza vedere, con i volti impietriti dal presentimento di una catastrofe mai vista ancora sulla faccia della terra.

Per quanto forte battesse il polso del colonnello Tibbets, il suo orologio seguitava indisturbato a scandire il tempo con le sue rotelline; un secondo dietro l’altro si trasformavano in passato. Le lancette segnavano le otto, quattordici minuti e trentacinque secondi.

Alla bomba era attaccato un paracadute che, per mezzo di un apparecchio appositamente studiato, si aprì come previsto.

La bomba oscillò, sempre scendendo verso terra, appesa al paracadute.

Le lancette dell’orologio segnarono le otto, quattordici minuti e cinquanta secondi.

La bomba si trovava a 600 metri dal suolo.

Alle otto e quindici minuti era scesa di altri cento metri, quando altri apparecchi inventati dagli scienziati fecero scattare l’accensione all’interno della bomba: dei neutroni provocarono la disintegrazione di alcuni atomi di un metallo pesante, l’uranio 235. E questa disintegrazione si ripeté in una reazione a catena di sbalorditiva velocità.

In un milionesimo di secondo, un nuovo sole si accese nel cielo, in un bagliore bianco, abbagliante.

Fu cento volte più incandescente del sole nel firmamento.

E questa palla di fuoco irradiò milioni di gradi di calore contro la città di Hiroshima.
In questo secondo, 86.000 persone arsero vive.

In questo secondo, 72.000 persone subirono gravi ferite.

In questo secondo, 6.820 case furono sbriciolate e scagliate in aria dal risucchio di un vuoto d’aria, per chilometri d’altezza nel cielo, sotto forma di una colossale nube di polvere.

In questo secondo, crollarono 3.750 edifici, le cui macerie si incendiarono. In questo solo secondo, raggi mortali di neutroni e raggi gamma, bombardarono il luogo dell’esplosione per un raggio di un chilometro e mezzo.

In questo secondo, l’uomo che Dio aveva creato a propria immagine e somiglianza, aveva compiuto, con l’aiuto della scienza, il primo tentativo per annientare se stesso.

Il tentativo era riuscito.



Karl Bruckner




05 agosto 2013

5 AGOSTO 1962



 
L' ultima intervista di Marilyn Monroe:
“ il successo è come il caviale, se è troppo fa venire la nausea «Nei giorni difficili penso: magari fossi una donna delle pulizie» «Cantai per Kennedy come se fosse stata l' ultima cosa della mia vita»
Dal documentario televisivo «Marilyn: l' ultima intervista» di Richard Maryman, riportiamo i brani più salienti. Il giornalista che intervistò la star il 6 luglio del 1962 parla fuori campo, introducendo i vari blocchi di risposte di Marilyn. Marilyn abitava a Brentwood, poco fuori Los Angeles. Suonai il campanello: il cuore mi batteva forte per l' emozione, perché non sapevo cosa aspettarmi. Quando la governante mi aprì restai di stucco. Davanti a me c' era un salone praticamente vuoto, con due sedie e nient' altro. Posai il registratore per terra e mi inginocchiai per metterlo in funzione. All' improvviso, mi apparve un paio di pantaloni gialli. Una voce mi disse: «Posso aiutarla?», così ho incontrato Marilyn Monroe. Era bellissima, truccata e pettinata per l' occasione. Però era visibilmente turbata, e cambiò umore molte volte. Era intensa, piena di rabbia e tristezza. Soprattutto quando parlava di come il successo avesse cambiato la sua vita. «Il successo è passeggero, ma almeno l' ho provato. Il successo è come il caviale. È bello mangiare caviale, ma se lo fai tutti i santi giorni ti viene la nausea. E poi il successo attira l' invidia. La gente dice: "Chi si crede di essere Marilyn Monroe?" «La fama e la felicità sono solo momentanee, sprazzi di benessere passeggeri per chi non ha avuto infanzia. Non mi considero un' orfana, ma sono cresciuta come tale. Io sono cresciuta in modo decisamente diverso dalla maggior parte dei bambini. I bambini sognano la felicità, per loro è una cosa scontata. A me, invece, la felicità sembra qualcosa di impossibile. Sognavo di recitare. La vita che facevo non mi piaceva. Il mondo per me era tetro. Vivevo al di fuori di tutto, poi all' improvviso, una porta si è spalancata. Mi sono chiesta: "Che succede?". Il mondo mi era amico, mi apriva le braccia. A quei tempi non capivo ancora il valore dei soldi. Cominciavo a comprendere l' importanza dell' aspetto ma qualcosa mi sfuggiva. Non potevo permettermi neanche un bel golfino». (Si vedono i primi servizi fotografici. Il più famoso è quello di Marilyn nuda, scattato da Tom Kelley nel 1949, che poi venne utilizzato da «Playboy»). «Il sesso è un dono naturale, grazie al cielo! È davvero un peccato che cerchino di rovinare questo sentimento così naturale. Tom Kelley è ancora in giro, si vede ancora in città. Quando mi propose di posare nuda, pensai: "Se devo diventare un simbolo, meglio essere un simbolo del sesso che di qualcos' altro. Oggi, però, un simbolo sessuale è considerato un oggetto. È terribile essere un oggetto!». Aveva quella risata squillante, inconfondibile. Ma durante l' intervista scoppiava a ridere nei momenti sbagliati. Marilyn ringraziava i fans per il suo successo. Sentiva che a Hollywood non la rispettavano, solo i suoi fans la capivano. Grazie a loro era una diva. Fu l' unico argomento di cui parlò con gioia durante l' intervista. «Se sono una star, è perché la gente lo ha voluto. È stata la gente. Lo studio era sommerso dalle lettere dei fans. Io dicevo: "Sono una star" e tutti mi guardavano come se fossi pazza. Non sapevo che effetto facessi finché non andai in Corea (Marilyn andò a cantare per le truppe americane in Corea del Sud nel febbraio 1954, ndr.) sino ad allora non lo avevo capito, perché quelli dello studio mi dicevano sempre: "Guarda che non sei una star!" A volte la gente vuole capire se sei vera. Ti osservano e vedono in te un qualcosa del tutto estraneo alla loro vita quotidiana. E questo è lo spettacolo, giusto? La gente mi piace. Il pubblico, la ressa mi spaventano. La gente è qualcosa di cui ti puoi fidare». Marilyn aveva sentimenti ambivalenti sulla sua immagine di sex symbol e sulla stampa che la enfatizzava. La stampa l' aveva resa famosa, ma lei non si fidava. Perciò aveva voluto sapere prima le domande dell' intervista. L' attenzione della stampa le piaceva, ma non voleva essere perseguitata dai reporter ogni volta che usciva. «Sembra che ci sia sempre qualcuno pronto ad assalirti. È così, non sono paranoica. È come se volessero rubare una parte di te, farti a brandelli. Penso che molti non se ne rendano nemmeno conto. A volte ti senti come derubata di te stessa, mentre tu vuoi restare integra, ben salda sulle tue gambe. Vogliono sapere tutto di te. A volte è quasi impossibile. Anche un personaggio pubblico ha bisogno di solitudine, ma non tutti lo capiscono. È importante avere dei segreti solo per sé, cose che non si vogliono rivelare al mondo intero. Ci devono essere dei momenti di privacy... Mi piaceva tanto ridere forte! Prendevo una bicicletta in prestito e volavo via. Cominciavo a ridere al vento, correndo come un fulmine e ridendo, ridendo! Adoravo il vento. Sembrava che mi accarezzasse». Marilyn ricevette solo due telefonate durante l' intervista. Una volta, allo squillare del telefono, disse alla governante: «Se è un italiano, io non ci sono». Credo si riferisse a Joe Di Maggio. Marilyn si sposò tre volte e fu sempre un fallimento. Non volle nemmeno che nominassi il suo primo matrimonio, a 16 anni, con Jim Dougherty (da cui divorzierà quattro anni dopo; si vede la foto di nozze; poi, siamo al 14 gennaio 1954, Marilyn sposa il campione di baseball Joe Di Maggio: il matrimonio dura solo nove mesi; infine, il 29 giugno del ' 56, si sposa con il commediografo Arthur Miller, da cui divorzierà nel gennaio del ' 61, ndr). «Non ero mai felice, non contavo sulla felicità. Tranne che nel matrimonio. Quando ero piccola m' immaginavo per gioco una casa tutta mia. Potevo fingere di essere quello che volevo, ogni volta una cosa diversa. Era utile per imparare a stabilire i propri limiti... Comunque, io non potevo solo fare la casalinga. Fantasticavo troppo. Quando capitano quei giorni difficili, a volte penso: "Magari fossi una donna delle pulizie". Negli studi, ce ne sono molte. A volte vorrei davvero essere così. In fondo, però, mi accontento di quello che sono». Durante l' intervista Marilyn cominciò a bere champagne («Vuole bere qualcosa? Avanti, solo un goccio» mi diceva). Più beveva, più era inquieta e sulla difensiva. Mi confessò tutto il dolore per come Hollywood l' aveva trattata in 15 anni di carriera. Continuava a ripetermelo, come un disco incantato. Sentiva che non l' avevano mai considerata una star. La sua rabbia esplose quando, innocentemente, le chiesi cosa facesse per essere così in forma sul set. «Gira voce che beva qualcosa prima di girare, è vero? Io non bevo niente, non bevo. Credo che sia una grave mancanza di rispetto fare domande del genere. Non siamo macchine. Non importa cosa vogliano farvi credere. Io voglio essere una vera artista, un' attrice con una sua dignità. Quando invecchierò faro altri ruoli. Il mio maestro Lee Strasberg (fondatore dell' Actors' Studio di New York, che Marilyn cominciò a frequentare nel 1955, ndr) mi ha sempre detto: "Se non te la senti, se sei nervosa, lascia perdere". Il nervosismo è indice di sensibilità. Molti pensano che per fare un film basta andare sul set e il gioco è fatto! Invece è molto faticoso. Io devo veramente lottare. Un mio collega ha detto che baciare me è stato come baciare Hitler (la battuta è di Tony Curtis, dopo le riprese di «A qualcuno piace caldo», in cui Marilyn portò tutti all' esasperazione con i suoi ritardi e i suoi capricci, ndr). Addirittura! Bè, per me quello era un suo problema! Sa che cosa, se io devo girare una scena d' amore con un attore che la pensa così di me, allora uso tutta la mia fantasia. In altre parole, lo cancello. Immagino qualcun altro al suo posto. Lui sparisce, non c' è mai stato! «Il pubblico resterebbe deluso se sapesse come questo mondo tratta le sue star. Come quando ho avuto la parte per Gli uomini preferiscono le bionde. Jane Russell era la bruna, io la bionda. Lei ebbe 200.000 dollari per quella parte, io 500 a settimana. Mi sembrava abbastanza; però non mi avevano dato un camerino. Io dissi che era un mio diritto, dopotutto io ero la bionda e il film era Gli uomini preferiscono le bionde. Loro ripetevano che io non ero una star, ma io sostenevo che ero la bionda del titolo ed avevo dei diritti... «Ho dato un' impressione sbagliata di me, ma non sono nevrotica. Credo che ogni mia debolezza sia stata amplificata. Molte persone hanno dei problemi che vogliono mantenere privati. Io per esempio arrivo sempre in ritardo... Molti pensano che i miei ritardi derivino dalla mia arroganza. Invece è tutto il contrario. Io sono l' opposto. Questa casa di produzione (la Fox, che l' aveva licenziata dal film «Something Got To Give», ndr) fa girare su di me delle voci incredibili. Non ho mai creduto di dover andare sul set solo per imparare a essere disciplinata. Se ho un raffreddore, come oso ammalarmi? I dirigenti possono darsi malati, stare a casa quanto vogliono, basta una telefonata. E invece tu, attrice, come osi stare male?». Marilyn rifiutava qualunque responsabilità della sua lunga assenza dal set della Fox. Sosteneva di essere stata male, ma lo studio non le aveva creduto. Come non bastasse, si prese due giorni per andare a New York a cantare «Buon Compleanno» al presidente Kennedy. Parlava di lui in modo non troppo convinto, come di uno sconosciuto. (Si vedono le immagini della serata di gala al Madison Square Garden di New York, con Peter Lawford sul palco che presenta Marilyn, ndr). «Fui onorata dell' invito. Ci fu un silenzio improvviso in tutta la platea e io pensai: "Se non portassi gli slip direi che sto mostrando qualcosa!" (Lawford pronuncia la celebre e infelice battuta: «Here is the late Marilyn Monroe», che voleva dire in ritardo o anche defunta, ndr). Ci fu di nuovo un gran silenzio ed ebbi paura di non avere più voce. Poi mi sono detta: "Va bene, canterò, fosse l' ultima cosa che faccio nella mia vita!"». Poi ha incontrato Kennedy? «Dopo ci fu un ricevimento anche se non ho visto niente da mangiare. Chissà, forse ero nel posto sbagliato! Però, ho incontrato il Ministro della giustizia che già conoscevo (è Robert Kennedy, ndr). È stato bello vedere un volto amichevole e sorridente». Tre settimane dopo, Marilyn viene contestata e allontanata dal set di «Something' s Got to Give». Per la Fox, la trasferta a New York era stata l' ultima goccia. Marilyn aveva fatto 21 giorni d' assenza su 33 di riprese. Alla fine dell' intervista Marilyn era esausta. Aveva bevuto un' intera bottiglia di champagne senza toccare cibo. E continuava a dipingersi come una vittima. «Il successo è un peso. E l' industria cinematografica è come una madre il cui figlio viene investito da un' auto, e lei, anziché abbracciarlo, lo picchia perché si è fatto investire. Pensano di essere più potenti se ti calpestano e ti trattano male. Io l' ho sperimentato. Ma non c' è solo quello. Il successo se ne andrà, e addio successo! Però potrò dire d' averlo conosciuto e poi l' ho detto che è passeggero. «Non so se si capirà dalla registrazione, io so cosa intendo. Va benissimo. Lo spero davvero. Però, la prego, non mi faccia sembrare ridicola». Quelle furono le ultime parole che mi disse. Mentre mi allontanavo mi voltai a guardarla. Marilyn era lì, sulla porta. Mi salutò e gridò: «Ehi, grazie!». Tornai a New York e scrissi il mio articolo, che apparve sulla rivista Life il 3 agosto. Il 5 agosto ricevetti una chiamata. Era un collega che mi diceva che Marilyn era morta. Ne fui sconvolto. Marilyn era una donna che soffriva, senza dubbio. Non avevo avuto alcun sentore che quella fosse la sua ultima intervista, che fosse sull' orlo del suicidio. Negli ultimi 30 anni, ho riascoltato questi nastri decine e decine di volte per capire se mi fosse sfuggito qualcosa. Non ho mai trovato una risposta. Marilyn Monroe ha sofferto a lungo per problemi psichici. Aveva cambiamenti d' umore improvvisi e repentini. (Il filmato si conclude con le dichiarazioni del medico legale: «Sulla base delle informazioni raccolte, riteniamo che si tratti di un suicidio». Parte il cinegiornale sui funerali). www.corriere.it In video un estratto dell' ultima intervista di Marilyn 40 ANNI FA Con il giornalista di «Life» un incontro di otto ore «Fame», il successo. Di quello avrebbero parlato il giornalista Richard Maryman di Life e Marilyn Monroe. Si incontrarono il 6 luglio 1962, a casa di Marilyn, a Los Angeles. Parlarono per otto ore. Marilyn aveva dei pantaloni gialli, era pettinata e truccata, beveva champagne. Maryman aveva un registratore. Da quella lunghissima conversazione sarebbe uscita l' ultima intervista di Marilyn. Apparve su Life il 3 agosto del 1962. Due giorni dopo, la mattina del 5, l' attrice veniva trovata morta. Suicidio con barbiturici fu la versione ufficiale. Per i trent' anni dalla sua scomparsa, lo stesso Maryman curò uno special televisivo, «Marilyn: The Last Interview». In cui si ascolta la voce di Marilyn che parla al suo estremo intervistatore. Il filmato (25 minuti), proiettato per la prima volta in Italia ieri sera al Teatro Greco di Taormina, verrà trasmesso sul canale Studio Universal, il primo agosto, alle 20,30; dopo passerà «A qualcuno piace caldo». Maryman ricorda che Marilyn era visibilmente turbata, cambiava spesso umore, rideva nervosamente. Era arrabbiata con i dirigenti della Fox che l' 8 giugno l' avevano licenziata dal film «Something Got To Give». Motivo: le continue assenze dal set. Marilyn ribatte: ero ammalata, se i dirigenti stanno male possono restare a casa, un' attrice no. Però la malattia non le aveva impedito di volare a New York, il 19 maggio, per cantare «Happy Birthday Mr President» alla festa di compleanno di John F. Kennedy. Del Presidente, però, non dice niente. Ha invece buone parole per il fratello Bob, ministro della giustizia. Dopo la sua morte si è saputo che, chiusa la relazione con John, Marilyn s' incontrava con Bob: era innamorata e forse aspettava un figlio. Ma anche Bob vuole chiudere. L' attrice, disperata, si confida con alcuni amici, e la Casa Bianca e i servizi segreti cominciano ad aver paura. Chi cerca in questa intervista elementi che avvalorino la tesi dell' omicidio resterà deluso. Marilyn, qui, è solo una donna che riconsidera la sua vita («successo e felicità sono solo momentanei sprazzi di benessere per chi non ha avuto un' infanzia»), sa che il successo può finire, odia i produttori che l' hanno sempre calpestata. L' industria del cinema con lei è stata una mamma crudele, una mamma che invece di abbracciare il figlio dopo un incidente lo picchia. Ama solo la gente, perché è la gente che l' ha fatta diventare una star. Chiede comprensione per le sue debolezze, se è sempre in ritardo non è per arroganza, anche lei ha i suoi momenti difficili ma non è nevrotica. Forse, dice, «ho dato un' immagine sbagliata di me». Momenti felici ne ha avuti pochissimi: «mi piaceva ridere, andare in bicicletta nel vento e ridere a più non posso». E' disarmante quando dice che vorrebbe essere una donna delle pulizie, «ma in fondo mi accontento di quello che sono». Cerca rispetto, comprensione. Alla fine dell' intervista chiede: «la prego, non mi faccia sembrare ridicola». Ranieri Polese Il personaggio LA FAMIGLIA Norma Jean Mortensen (battezzata Norma Jean Baker) nacque il 1° giugno 1926 a Los Angeles. La madre soffriva di disturbi psichici, del padre non conobbe nemmeno l' identità. Costretta a passare da una famiglia adottiva all' altra, nel 1935, a 9 anni, entrò in orfanotrofio LA SCOMPARSA Nel 1946 firmò un contratto con la 20th Century Fox: da allora iniziò ad usare il nome di Marilyn Monroe. Tre matrimoni (tra cui il mito del baseball Joe DiMaggio e il commediografo Arthur Miller) e altrettante separazioni. Nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, Marilyn fu trovata morta ALBUM 1953 GLI UOMINI PREFERISCONO LE BIONDE Marilyn e Jane Russell, le due amiche ballerine del film di Howard Hawks, lasciano le impronte delle mani a Hollywood 1954 LA MAGNIFICA PREDA Alla Monroe non piacque: «Un film di cow-boy di serie Z» (foto da «Marilyn Monroe - Immagini di un mito», Rizzoli) 1956 LE NOZZE CON MILLER Marilyn e il commediografo Arthur Miller si sposarono il 29 giugno 1956. Per lei erano le terze nozze. Divorziarono nel 1961 1962 IL COMPLEANNO DI JFK Marilyn con Peter Lawford, al compleanno di John Kennedy (foto da «Marilyn Monroe - Immagini di un mito», Rizzoli) 1962 LICENZIATA DAL SET L' ultimo film di Marilyn, «Something' s got to give», non fu terminato: l' attrice fu licenziata. Ne restano alcuni spezzoni

Polese Ranieri, Maryman Richard
 DAL CORRIERE DELLA SERA 13 LUGLIO 2002

03 agosto 2013

LA STORIA




La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

Eugenio Montale